Storia del codice
CONVEGNO SASSARI 1903 – 2003
IL PRIMO CODICE IN ITALIA DI ETICA E DEONTOLOGIA DEI MEDICI
- Intervento Dott. Agostino Sussarellu
Presidente dell’Ordine dei Medici di Sassari
100 anni di Deontologia Medica partendo da Sassari
Grazie alla pubblicazione del volume “1946-1996 per una storia degli Ordini dei Medici”, edito dalla Federazione Nazionale in occasione del cinquantenario della ricostituzione degli Ordini Professionali dei Medici, siamo venuti piacevolmente a sapere dell’esistenza del “Codice di Etica e Deontologia dell’Ordine de’ Medici della provincia di Sassari”, stampato dalla tipografia Gallizzi nel 1903.
E’ inutile dire quanto tale scoperta ci abbia riempito di orgoglio, visto che il documento va considerato, a buon diritto, il più antico esempio di codificazione deontologica formulata da un Ordine dei Medici.
Siamo stati particolarmente fortunati, in quanto ci è stato possibile reperire una copia autentica del codice presso la biblioteca dell’Università degli studi di Sassari, che l’ha gentilmente messa a nostra disposizione al fine di effettuare le copie anastatiche.
E’ per noi estremamente gratificante e significativo prendere atto che i medici della nostra provincia, già cent’anni addietro, abbiano sentito, non solo la necessità di costituire un organismo privatistico denominato “Ordine de’ Medici”, ma anche l’esigenza e l’opportunità, appena riunitisi in associazione, di formulare un codice di autoregolamentazione.
Tale codice mostra una caratterizzazione particolare, è infatti suddiviso in capitoli, tre per l’esattezza: il primo tratta dei rapporti verso il pubblico e si compone di dodici articoli, il secondo ne comprende
ben trentasette e parla dei doveri verso i colleghi, ed infine il terzo, composto di soli due articoli, riguarda i provvedimenti disciplinari.
Questa suddivisione, così apparentemente squilibrata, non deve sembrare un puro e semplice frutto di corporativismo, infatti, in un periodo in cui il paternalismo medico non era minimamente posto in discussione, il lungo capitolo sui doveri verso i colleghi nasconde tra le righe molti motivi di tutela dei pazienti, della loro salute e della loro libertà di farsi curare.
Al contempo, il primo capitolo comprende al suo interno dei punti ancor’oggi di estrema attualità, e mi riferisco in particolare agli articoli tre e quattro in cui si afferma che nel dare gravi notizie il Medico deve usare “debiti modi” e che egli “non intraprenderà alcun atto operativo senza aver prima ottenuto il consenso dell’ammalato o delle persone dalle quali dipende ….”.
Sono sicuro che un’attenta lettura di questo vecchio Codice di Etica e Deontologia risulterà interessante per tutti, e non soltanto per noi Medici, in quanto riesce a trasmettere, accanto a quel sapore di antico e di cavalleria ottocentesca, una spinta progressista che la classe medica, proprio all’interno delle varie revisioni del codice deontologico, e spesso in anticipo sulle norme legislative nazionali, riconosce e rivendica come proprie, in qualità di garante della salute pubblica.
Tengo molto a concludere le due righe di presentazione, destinate a questa piccola pubblicazione, riportando il primo articolo di un così vecchio e per certi versi tanto attuale codice.
“Il sanitario sarà diligente, paziente e benevolo e conserverà sempre e scrupolosamente il segreto professionale. Sarà affabile coi poveri, non mostrerà ossequio servile verso i ricchi e curerà gli uni e gli altri con la stessa abnegazione.”
- Intervento Prof. EUGENIA TOGNOTTI
Docente Facoltà di Scienze Politiche Università di Sassari
L’anno in cui compare la prima edizione del Codice di etica e deontologia dell’”Ordine de’ medici della Provincia di Sassari”, stampato dalla tipografia Gallizzi, la città attraversa una fase fortunata. In quel 1903, infatti, la vita economica è in netta ripresa dopo la crisi provocata dagli effetti sprigionati dalla catena di sciagure degli anni Ottanta del secolo precedente: l’infestazione fillosserica, la catastrofe bancaria, la guerra doganale seguita alla rottura dei rapporti commerciali con la Francia (1887).
Chiusa la lunga stasi demografica – provocata dalla crisi e dalla conseguente emigrazione – la città comincia a crescere “chè zucca Capidannu” avrebbe scritto, qualche tempo dopo, il poeta Pompeo Calvia, uno degli uomini più rappresentativi di quella “civiltà” sassarese che conosceva proprio allora il suo momento più alto, legato ai nomi di Enrico Costa, prolifico storico e narratore. E, ancora, del letterato Luigi Falchi, del compositore Luigi Canepa e di quello di un folto gruppo di giornalisti, scrittori e artisti, tra cui il pittore Giuseppe Biasi, allora giovanissimo caricaturista dei fogli goliardici. La richiesta in quell’anno di aree fabbricabili sul Colle dei Cappuccini e a Baddimanna conferma che l’abitato – situato a mezza costa del sistema collinoso che degrada dal ciglione di Serra Secca verso il golfo dell’Asinara – si andava espandendo verso sud-est e sud-ovest – manifestando la tendenza a risalire il pendio della collina, guadagnando progressivamente in altezza sul livello del mare. Nell’attuale via Zanfarino era in costruzione il Mattatoio; a Rizzeddu stava sorgendo il manicomio provinciale.
Un’amministrazione progressista – guidata dall’avvocato Pietro Satta Branca, uno dei fondatori della Nuova Sardegna – era al governo della città che contava 38.050 abitanti per un territorio di 60.450 ettari, uno dei più vasti in Italia. Esso comprendeva le frazioni dell’Argentiera e di Stintino e una parte della vasta regione pastorale della Nurra. La presenza di un’Università e di diverse istituzioni educative, nonchè di un quotidiano provinciale, la Nuova Sardegna, intorno a cui orbitava una discreta cerchia di intellettuali, conferiva vivacità alla vita politica e culturale della città.
Particolarmente consistente era la borghesia delle professioni. Se gli avvocati costituivano tradizionalmente il grosso dell’elite professionale, erano in continuo aumento i medici, usciti da una Facoltà medico-chirurgica, quella dell’Ateneo turritano, ormai in linea con le sedi più importanti della formazione medica in Italia. Tra gli 81 medici che esercitarono a Sassari numerosi gli “specialisti” – alcuni dei quali medici universitari e ospedalieri – i cui nomi comparivano in un’apposita rubrica della Nuova Sardegna. Le “malattie delle donne”, degli “orecchi naso e gola”, di quelle nervose e dei bambini erano le più rappresentate. Consistente anche il gruppo degli oculisti e dei dentisti che offrivano ad una evidentemente vasta e facoltosa clientela cure avanzate e tecniche innovative come le “dentiere premiate all’esposizione di odontojatria di Lione a Parigi” senza uncini nè molle, con camera d’aria automatica.
Una pluralità di figure, dunque, e un mercato professionale in evoluzione. Svincolata la domanda di cura dalle emergenze epidemiche- così tristemente ricorrenti a Sassari, città “famosa per le pestilenze” – andava crescendo quella legata a consumi sanitari che rimandavano ad un incipiente processo di medicalizzazione, in cui entrava la difesa della salute e la cura del corpo.
Si trattava di un fenomeno che si manifestava assai più nettamente nelle aree più ricche del Paese, in un periodo di enormi trasformazioni dei contenuti e delle forme del sapere medico-scientifico. E, quindi, dell’identità e dei ruoli dei medici, posti di fronte alla necessità di ridefinire i rapporti con la società, con i colleghi, e soprattutto con i pazienti: “Il medico odierno – si legge in un Galateo del medico del 1873- al cospetto dell’ammalato è in una posizione diversa da quella di qualunque epoca anteriore.
Egli deve riprodursi nella mente le alterazioni morfologiche degli organi più riposti all’interno del corpo, e non basta; ma deve pure penetrare con l’occhio della mente nel segreto magistero delle forze vive. Egli deve pensare fisicamente e chimicamente in presenza dell’ammalato”.
Stretta tra i valori filantropici e solidaristici che avevano sostenuto la pratica professionale nel passato e la crescente affermazione della thecne sulla philantrophia; e spinta anche dalla concorrenza operante in un mercato professionale troppo ristretto, la comunità medica si trovava di fronte alla necessità di aggiornare i principi etici e deontologici che regolavano l’esercizio professionale e i rapporti con pazienti e colleghi. E questa doveva essere tanto più avvertita in un centro come Sassari in cui i fenomeni descritti si erano verificati più rapidamente. E dove l’antico “ospedale ricovero” aveva lasciato il posto solo a metà Ottocento al nuovo ospedale, in cui il prevalere del fine terapeutico su quello assistenziale definiva competenze e ruoli: il medico, il chirurgo, l’oculista, il pediatra, l’ostetrico.
Occorre riferirsi a questo contesto in rapida evoluzione in città, nonchè a quello culturale e intellettuale che abbiamo cercato di evocare in apertura, per comprendere le “correnti” di idee e sensibilità che portano l’Ordine dei Medici di Sassari all’elaborazione del primo Codice deontologico in Italia. Steso da una commissione ristretta , formata da tre medici ( i dottori Pugioni, Dasara-Cao, Usai) il testo era stato discusso in una seduta del Consiglio e poi in Assemblea. Importante dovette essere l’apporto del presidente dell’Ordine, il professor Angelo Roth. Nato ad Alghero nel 1855 era allora in cattedra di Clinica chirurgica e patologia speciale chirurgica. Inserito negli ambienti politici sassaresi, di orientamento progressista, con una rete di relazioni fuori dall’isola e all’estero dove era stato in viaggi di studio sui progressi della chirurgia delle vie urinarie, era destinato ad una brillante carriera accademica e politica che lo vedrà diventare rettore (1908-1915), Deputato e Sottosegretario alla Pubblica Istruzione (1916-19).
I contenuti del documento sono assai istruttivi. In apertura spicca il richiamo a quella che potremmo chiamare l’humanitas, e più in generale ad alcuni dei valori fondanti della medicina ippocratica: “ Il medico sarà diligente, paziente e benevolo” (Cap.1). Seguono i principi che fanno riferimento alla prescrizione del segreto professionale e al dovere del medico di non operare discriminazioni tra i pazienti ricchi e poveri (“Sarà affabile coi poveri, non mostrerà ossequio servile verso i ricchi, e curerà gli uni e gli altri con la stessa abnegazione”).
Dopo il richiamo alla necessità di “vegliare sulla salute pubblica”, espressione di una nuova sensibilità per i problemi sociali, si ribadisce la necessità del rispetto del malato (il medico “non intraprenderà alcun atto operativo senza avere prima ottenuto il consenso dell’ammalato ….”).
Seppure breve il Codice affronta minutamente tutti gli aspetti allora all’ordine del giorno della comunità professionale: i rapporti con Enti morali, Associazioni mutue di beneficenza, sodalizi vari che conferivano incarichi ai singoli sanitari per prestazioni definite da capitolati, statuti ecc.; e, ancora, la questione della remuneratività della cura (il medico “deve pretendere per le sue prestazioni un compenso degno ed adeguato”.
Le perizie cliniche. La definizione del primato del medico sugli altri operatori sanitari e il problema dell’esercizio abusivo (“non si dovrà mai accettare un consulto o un semplice abboccamento con persona che eserciti illegalmente l’arte salutare. Ovvie ragioni scientifiche sconsigliano ad un medico allopatico di accettare consulti con medici che esercitano l’omeopatia o la dosimetria).
La regolamentazione di questa materia sarebbe arrivata soltanto sette anni dopo, con la legge del 1910 che proibiva ogni forma di esercizio abusivo e attribuiva valore istituzionale agli ordini dei medici e ne tracciava le regole per l’autogoverno.
Va, dunque, ad onore del mondo medico sassarese di aver voluto fissare per primi, su carta, gli esiti della comune ricerca di punti di riferimento etici, deontologici e prescrittivi nel concreto esercizio della professione, a conferma di una sensibilità che rappresenta da sempre un prezioso patrimonio dei medici di questa provincia.
CONVEGNO “GIORNATA DEL MEDICO” DEL 1997
- Intervento Prof. EUGENIA TOGNOTTI
Docente Facoltà di Scienze Politiche Università di Sassari
Alle origini del percorso Deontologico Medico a Sassari
Il Codice del 1903.
Il giorno 23 Marzo 1903, apparve sulla cronaca provinciale della “Nuova Sardegna” l’annuncio della assemblea generale dei soci dell’Ordine dei medici della provincia, fissata per mercoledì 25 col seguente ordine del giorno: comunicazioni della presidenza; discussione e approvazione delle “aggiunte allo statuto e regolamento”; approvazione del codice di etica e di deontologia; proposte relative alla pubblicazione dello Statuto, del Regolamento, del Codice di etica e di deontologia e altri. Alcuni giorni dopo, sempre nella cronaca cittadina, apparve una breve nota dalla quale si evince che il codice di etica e di deontologia era stato discusso ed approvato, così come la proposta di pubblicazione. Sfortunatamente il giornale non da conto, neppure en passant, della discussione sui punti controversi, sulle questioni su cui fu neccessario mediare.Tuttavia, il testo del Codice, fortunosamente recuperato dai dirigenti dell’Ordine ci consente di farci un’ idea, a quasi un secolo di distanza, dei principi, delle norme morali che i medici sassaresi del tempo posero come fondamento della codificazione deontologica.
Prima di entrare nel vivo del discorso vorrei però cercare di dare una risposta al perchè i medici di Sassari, riuniti in una libera associazione, giunsero tra i primi in Italia, se non per primi, a sentire l’esigenza di formulare un proprio “Codice” di autoregolamentazione interna. A questo proposito si possono naturalmente avanzare solo delle ipotesi, cosa che cercherò di fare cominciando col prendere in considerazione la personalità del presidente dell’Ordine, il professor Angelo Roth (coadiuvato da un assistente della Clinica ostetrica, Domenico Dasara Cao, e da altri due professionisti sassaresi, Usai e Puggioni) il cui impulso dovette essere determinante. Personalità di assoluto rilievo sulla scena cittadina, patologo e clinico chirurgo, già preside di Facoltà e futuro Rettore, il professor Roth aveva allora 48 anni ed era in cattedra di Pattologia speciale e Clinica chirurgica a Cagliari ed era risultato quindi vincitore di un concorso bandito dall’Università di Sassari, dove era giunto nel 1890. Impegnato nella vita politica nello schieramento democratico di cui facevano parte anche Satta Braca, Berlinguer, ecc., esponente di spicco della massoneria, in cui si raccoglieva buona parte della borghesia sassarese, Roth era amatissimo dagli studenti: non c’era manifestazione o iniziativa dell’associazione studentesca Corda Fraters a cui non venisse invitato e non prendesse la parola, non disdegnando neppure di intervenire alla parte – per così dire ludica – dell’attività dell’associazione come la festa delle matricole. Proprio l’anno dell’uscita del Codice, in quel 1903, egli vi partecipò e ascoltò il sermo maccheronicus, letto dal pontefice “massimo” Aloisus (cioè Luigi) Cabras che dava ai suoi condiscepoli i seguenti consigli come abbiamo potuto constatare nelle cronache della “Nuova”:
Innamoracciare ad fraschium cum pulchra puella: sed si ad trium veniant etiam tecciarum servarum rotunditates vexare nocturna atqe diurna manu indefesse debes…
Roth era allora un ricercatore conosciuto e stimato negli ambienti scientifici fuori dall’isola come dimostra il fatto che nel 1902 il Ministero lo aveva invitato in missione a Londra e a Parigi allo scopo di raccogliere elementi sui progressi della chirurgia delle vie urinarie. Nel suo soggiorno a Torino e nei contatti col mondo della professione medica di altre città italiane, egli dovette certo seguire la vicenda degli ordini professionali su scala provinciale, nati tra; gli anni Ottanta e Novanta. E certo doveva riconoscersi nelle istanze di quella “pattuglia” di medici politici progressisti che, all’alba del nuovo secolo, nell’Italia giolittiana, mentre si avviava il processo di industrializzazione con tutti i suoi effetti (urbanesimo, emergenza delle malattie sociali) si battevano per difendere e migliorare la salute dei ceti popolari, ponendosi come coscienza sanitaria del paese, coscienza in cui confluivano scientismo positivista, umanitarismo, naturalismo antropologico, biologia della salute fisica e morale. Certo Sassari non era Milano, con i suoi 20.000 immigrati all’anno e 40.000 famiglie che vivevano in una sola stanza. Ma la situazione igienico-sanitaria non era qui meno allarmante soprattutto nei sovraffollati e malsani quartieri della città vecchia dove la tubercolosi e il tracoma e le affezioni quali tifo, difterite, crup, scarlattina, morbillo, le principali cause di morte nella prima infanzia, rivelavano il ritardo in fatto di adeguamento dei servizi igienici collettivi (acquedotti, fognature, smaltimento dei rifiuti, mercati ecc..). Eppure, proprio in quel 1903, il quotidiano provinciale segnalava una discesa dei tassi di mortalità; un progresso dovuto anche agli enormi sviluppi della medicina, che si andava dotando, in quegli anni, per alcune delle malattie epidemiche più diffuse, di strumenti diagnostici e terapeutici meglio fondati, grazie agli apporti scientifici della battereologia. Il miglioramento delle condizioni sanitarie generali – su cui influiva anche l’estendersi della rete dei medici condotti – aveva aperto spazi ad una domanda di cura non legata all’emergenza delle malattie infettive, ma ad una domanda sanitaria da parte degli strati più abbienti della popolazione – borghesia agraria e professionale della città e dell’hinterland provinciale, funzionari civili e militari, ricchi commercianti, ecc. – che poneva la difesa della salute tra i nuovi consumi.
In una città come Sassari – dove i medici erano 83 – il dato è del 1901 – i liberi esercenti rappresentavano un gruppo numeroso che si scontrava con le prime forme di economia sanitaria che sperimentava le ambiguità del mercato professionale dove si affiancavano falsi e veri “specialisti”: nella pubblicità del quotidiano della “Nuova” ne troviamo un elenco nutrito. In via Insinuazione c’era il “poliambulatorio” del dott. Pitzorno dove si facevano esami, si curavano le malattie di orecchio, naso e gola, e le malattie delle donne. Per le malattie nervose e dei bambini c’era il dott. Altana in via Arborea, mentre il professor Pes, docente di oculistica all’Università di Torino aveva studio in via Cavour. Numerosissimi i dentisti: il professor Loddo, chirurgo dentista, rimpiazzava – dice la pubblicità – denti e dentiere con sistemi perfezionati”. Il dott. Casotti, anche lui chirurgo dentista aveva lo studo in via Mannu, e in piazza Azuni il dott. Stara applicava dentiere premiate ad esposizioni odontoiatriche – cito testualmente le parole del messaggio pubblicitario – “senza uncini nè molle, con camera d’aria automatica in oro e perfetta adesione”. Niente in comune, assicurava, con quelle normali, “a pressione d’aria che perdono l’aderenza ad ogni minimo movimento della mascella”. Una parte assai consistente della cronaca cittadina, tutta l’ultima colonna a destra, era poi dedicata alla pubblicità di medicine di incerta efficacia terapeutica: antiasmatici, “rigeneratori del sangue”, “tonici dei nervi”, liquori tonici ricostituenti (Ferrochina Bisleri), pillole contro la stitichezza e il gastricismo, contro tosse e catarri, globuli ricostituenti contro la cosiddetta “virilità esausta” e “l’impotenza”. Un mercato professionale affollato di figure di specialisti o presunti tali, nel quale non doveva mancare la concorrenza anche sleale e dovevano verificarsi episodi denunciati da altre parti come quelli delle perizie cliniche, affidate sempre agli stessi specialisti e così via.
Sono questi gli elementi che spinsero la nascita del codice Deontologico; la personalità di Roth, il suo impegno politico-sociale a difesa dei più deboli, i problemi posti da un mercato professionale in trasformazione. Non per caso il capitolo “Doveri dei sanitari verso i colleghi” occupa sei delle dodici pagine del “Codice”, mentre due sono dedicate ai “Diritti e doveri dei sanitari verso il pubblico”. Di questa parte vorrei sottolineare alcuni spunti molto interessanti e direi “moderni” e attuali: mi riferisco all’art. 1 in cui si dice che il sanitario deve curare con la stessa “abnegazione” ricchi e poveri, che ribadisce il concetto di assistenza sanitaria come valore sociale, su cui si potrebbe discutere a lungo in questo nostro presente in cui essa si è commercializzata, mentre il professionalismo in medicina sta aprendo la strada a vere e proprie industrie della salute. Ma vorrei richiamare anche l’art. 2 in cui si afferma che il sanitario deve “vegliare sulla salute pubblica nella misura dei propri mezzi”: l’impegno per la tutela della salute individuale si accompagna, quindi, a quello per la tutela della salute collettiva e si uniforma agli stessi principi morali. E, infine, l’art. 4 relativo all’informazione e al consenso del paziente che fa divieto al sanitario di “intraprendere alcun atto operativo senza avere prima ottenuto il consenso dell’ammalato”, il quale, nonostante la sua temporanea condizione di menomazione fisica, è considerato una persona autonoma, in grado di prendere tutte le decisioni che riguardano il suo corpo, la sua salute, la sua vita.
Siamo, insomma, a quello che oggi si chiama principio dell’autonomia, che afferma che nessun soggetto può essere usato o manipolato da altri, e che è considerato oggi fondamentale per la bioetica, posta di fronte a dilemmi morali quali la sperimentazione, l’eutanasia, ecc.
Per concludere. Quel primo “codice” dell’Ordine dei medici di Sassari “guardava avanti”. Anch’esso usciva in un momento storico di cui gli sviluppi della scienza medica ponevano nuovi principi etici, nuove norme morali e nuove regole comportamentali. Proprio come accade oggi. Alle soglie del Duemila, ci troviamo di fronte a grandi, talora drammatiche scelte. La scienza, l’economia sanitaria, la professione medica sono chiamate ad una innovativa visione etica, ad un nuovo “patto di Ippocrate”, fondamento di un nuovo rinnovato rapporto tra sistema sanitario e diritto dell’uomo alla salute.
Ultimo aggiornamento
15 Gennaio 2013, 18:24